Non potremmo vivere senza fidarci. Come sosiente Niklas Luhmann, «senza fiducia (le persone) non potrebbero nemmeno alzarsi dal letto la mattina»
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Fidarsi o non fidarsi? È una questione che ci si pone
implicitamente o esplicitamene decine di volte durante ognuna delle nostre
giornate. Quanto sarà affidabile l’autista del bus che prendo per andare al
lavoro? L’impiegato che gestisce le buste-paga avrà fatto correttamente tutti i
calcoli per determinare il mio stipendio questo mese? I miei colleghi si
staranno impegnando quanto dovrebbero per completare quel progetto che,
insieme, ci è stato assegnato? Sarà davvero fresco il pesce che mi ha venduto
ieri il pescivendolo? La terapia che mi ha prescritto il medico per quel
disturbo che ho da qualche tempo sarà davvero la più adeguata? E quanti altri
esempi potremmo fare, in ambiti così diversi come la politica, la tecnologia,
la stampa, la famiglia.
Non potremmo vivere senza fidarci. Come sostiene Niklas
Luhmann, «senza fiducia (le persone) non potrebbero nemmeno alzarsi dal letto
la mattina. Verrebbero assalite da una paura indeterminata, da un panico
paralizzante». La pensava allo stesso modo il suo maestro Georg Simmel, il
quale era convinto che «senza la fiducia generalizzata che le persone nutrono
vicendevolmente, la società stessa si disintegrerebbe».
Nonostante questo ruolo così centrale che il tema della
fiducia riveste nell’ambito delle nostre relazioni sociali, la teoria economica
fatica ancora a coglierne a pieno il significato e a darne una spiegazione
soddisfacente. Una delle ragioni ha probabilmente a che dare con l’impostazione
consequenzialista della teoria della scelta adottata in economia. Secondo
questo approccio le preferenze su una determinata azione derivano
esclusivamente dalle preferenze associate alle conseguenze di quella data
azione. Se l’azione A produce la conseguenza alfa e l’azione B invece quella
beta, allora io preferirò fare A invece di B solo se preferisco alfa a beta.
Questo ragionamento sembra ragionevole, e infatti lo è, anche se a ben vedere è
decisamente limitativo.
Per ridurre il rischio di opportunismo da parte del
giocatore 2 si studia anche una seconda variante del gioco. In questo caso il
giocatore 1 può decidere se adottare uno schema che prevede una sanzione per il
giocatore 2 nel caso in cui questi dovesse rimandare al giocatore 1 una somma
inferiore a quella richiesta. In questo caso il rischio della sanzione dovrebbe
far aumentare la disponibilità del giocatore 2 a comportarsi in maniera
affidabile restituendo parte dell’investimento a 1. Tuttavia, questo non è ciò
che si osserva.
Sia nella prima variante che nella seconda molti giocatori 1
decidono di investire il loro denaro e molti giocatori 2 decidono di
restituirne una parte in modo che lo scambio risulti vantaggioso per entrambi.
Ma ciò che sorprende di più è che tale dinamica viene scoraggiata
dall’introduzione della sanzione che invece era stata pensata proprio per far
aumentare la fiducia tra le parti. Ancora più sorprendente, forse, è il fatto
che i risultati migliori si ottengono quando il giocatore 1 sceglie di non
utilizzare lo schema con la sanzione anche quando avrebbe potuto farlo.
Fehr e List commentano questo risultato affermando che «se
gli agenti non sono minacciati dalla sanzione, il semplice fatto che il
giocatore 1 avrebbe potuto utilizzare l’opzione della sanzione influisce
positivamente sull’affidabilità del giocatore 2».
Il peso delle intenzioni
Ciò che emerge da questo risultato, quindi, è che per le
persone reali ciò che sarebbe potuto essere è rilevante quanto le scelte
effettivamente fatte. Lo stesso investimento produce risposte differenti da
parte del giocatore 2 a seconda del fatto che il giocatore 1 avrebbe potuto
scegliere la sanzione oppure no. La possibilità di scegliere lo schema con la
sanzione unitamente alla scelta di non avvalersene induce risposte più
affidabili da parte dei giocatori 2 perché segnala loro un livello di fiducia
più elevato. È come se il giocatore 1 dicesse al giocatore 2: «Potrei proteggermi
usando la sanzione ma scelgo di non farlo perché mi fido di te».
La fiducia genera dunque affidabilità mentre la diffidenza
genera opportunismo. I risultati dell’esperimento, dunque, mettono in luce come
le intenzioni, oltre che le conseguenze delle azioni, siano fondamentali sia
nel nostro processo decisionale che nel processo di valutazione delle scelte
altrui. Le
intenzioni possono essere associate ad un’azione attraverso un
processo proiettivo che tiene conto di ciò che l’agente avrebbe potuto fare e
non ha fatto. Il problema è che un simile processo non può essere descritto nel
linguaggio formale della teoria economica standard per via della sua natura
prettamente consequenzialista.
Alle
urne! Oggi l'Italia vota per le Politiche
Ci siamo: oggi, dopo una campagna elettorale lampo, inusuale
per i nostri standard, gli italiani potranno esercitare il loro diritto di
voto, tra le 7 e le 23, per eleggere il nuovo Parlamento. Occhio...
Ciò spiega la difficoltà di questo approccio a comprendere a
fondo fenomeni sociali rilevanti, come per esempio quello delle relazioni
fiduciarie. Tali limitazioni derivano dalla mancanza di una teoria che riesca a
formalizzare il processo di ragionamento che ci consente, per citare
l’economista Herbert Gintis, di «comprendere e condividere il contenuto delle
altre menti» (The Bounds of Reason, Game Theory and the Unification of the
Behavioral Sciences. Princeton University Press, 2009).
Il contributo della psicologia
Abbiamo visto nel Mind the Economy della settimana
scorsa come all’inizio degli anni ‘40 del secolo scorso John von
Neumann e Oskar Morgenstern iniziarono a sviluppare la teoria dei giochi
proprio per cercare di superare i limiti che la teoria economica neoclassica
incontrava nel descrivere e spiegare i fenomeni caratterizzati da
interdipendenza strategica. Tuttavia, come anche questi risultati sperimentali
mostrano, la teoria dei giochi classica, dopo decenni di sviluppi e innovazioni
non è ancora in grado di dare una descrizione e una spiegazione soddisfacente di
questo genere di fenomeni. Un promettente passo in avanti sembra però arrivare
dalla cosiddetta psychological game theory (teoria dei giochi
psicologici) sviluppata in questi ultimi anni da un gruppo di brillanti teorici
e sperimentalisti desiderosi di comprendere più a fondo la logica sottostante
l’intenzionalità, le emozioni sociali e altre forme di comunicazione
intersoggettiva. Questo viene fatto, da una parte, superando l’impostazione
consequenzialista e dall’altra, facendo in modo che il valore di certe azioni
sia legato esplicitamente alle intenzioni, alle credenze e alle emozioni dei
giocatori.
La teoria dei giochi psicologici differisce rispetto alla
teoria classica, principalmente perché è in grado di considerare l’interazione
tra soggetti ad un livello più profondo. Nel processo decisionale, infatti, non
si prendono in considerazione solamente le azioni da compiere e le credenze
circa le azioni che compiranno gli altri, come nella teoria dei giochi
classica, ma anche le credenze di ordine superiore al primo, vale a dire ciò
che ogni giocatore crede che gli altri si aspettino da lui, ciò che questi
credono che egli creda che i primi si aspettino da lui, e così via.
Questo espediente epistemico consente di descrivere e
formalizzare tutte quelle ragioni per l’azione che sono prettamente emotive e
relazionali. Una ben definita classe di emozioni, infatti, ha radice
relazionale: sono quelle emozioni che dipendono dalle attese degli altri circa
il nostro comportamento e dalle credenze individuali rispetto a tali
aspettative. La gioia per essere riusciti a sorprendere piacevolmente un amico
deriva dal fatto che l’amico si aspettava un comportamento differente rispetto
a quello che abbiamo posto in essere. Allo stesso modo, ci sentiamo in colpa
quando sappiamo che qualcun altro contava su di noi, e noi coscientemente
abbiamo deluso tali aspettative.
Emozioni come l’orgoglio, il risentimento, la colpa e la
gratitudine, hanno tutte la stessa forza motivazionale e la stessa natura
epistemica. Mentre la teoria dei giochi classica ma anche i modelli più
sofisticati basati sull’altruismo o sull’equità si fondano su una visione
ipersemplificata dell’intenzionalità, la teoria dei giochi psicologici e i
modelli che sfruttano la sua struttura epistemica permettono di descrivere
agenti che sono capaci di ascrivere intenzioni alle azioni osservate o
immaginate degli altri giocatori, e di formalizzare questo genere di
motivazioni relazionali. Grazie a questi nuovi strumenti analitici, la teoria
dei giochi psicologici sembra in grado di affrontare e, in una certa misura, di
risolvere alcuni dei problemi più impegnativi emersi nell’ambito della teoria
dei giochi classica negli ultimi anni.
25 settembre 2022
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