Mimmo Frassineti / AGF - Comizio di Sandro Pertini
Trent'anni fa se ne andava Sandro Pertini, il
presidente più amato dagli italiani. Socialista dalla giovinezza fino alla
morte, l'immagine di Pertini entrata nella memoria collettiva è senz'altro
quella dell'esultanza allo Stadio Bernabeu, durante la finale dei Campionati
del mondo del 1982, vinti dall'Italia.
Un'esultanza da ragazzino, così lontana dalle ingessate
etichette della politica di quegli anni. Pertini piaceva per questo, ma fu
molto di più di un presidente 'nazional-popolare'. Fu "un eroe", come
disse Giuseppe Saragat, suo vecchio compagno di partito, che
lo precedette di una decina di anni al Quirinale.
Pertini nasce a San Giovanni di Stella, piccolo comune
dell'entroterra savonese, il 25 settembre 1896. Durante la Grande Guerra
viene mandato sul fronte dell'Isonzo e gli viene conferita una medaglia
d'argento al valor militare.
Anche se in un'intervista ad Oriana Fallaci,
molti anni dopo, confessò la sua scarsa confidenza con le armi. "Avevo 19
anni quando andai a quella guerra. Ero sottotenente mitragliere e, un giorno,
sulla Bainsizza vedo arrivare uno con le mani alzate. Fermi, dico. Si dà
prigioniero. Viene avanti, cade nella trincea, e ha il volto a pezzi. Una
maschera di sangue. Allora buttai via il caricatore della mia rivoltella e non
ce lo rimisi mai più. Da quel giorno, andai sempre all’assalto con una
rivoltella senza caricatore".
Alla fine del conflitto si laurea in giurisprudenza e si
avvicina alle idee del socialismo riformista di Filippo Turati, che
considera il suo "maestro". Prende la tessera del Psu, però, solo
dopo l'omicidio di Giacomo Matteotti e pretende che sul
documento d'iscrizione ci sia la data della scomparsa del deputato socialista.
Subisce ripetute aggressioni da parte dei fascisti e il suo studio di avvocato
viene più volte devastato.
Nel 1925 è arrestato per la prima volta per aver diffuso un
opuscolo clandestino dal titolo 'Sotto il barbaro dominio fascista'. Durante
l'interrogatorio, davanti al giudice, Pertini rivendica il suo gesto,
assumendosi ogni responsabilità.
Il futuro presidente della Repubblica resta
in carcere otto mesi e al suo rilascio riprende l'attività clandestina
antifascista. Viene definito dalla polizia "un avversario irriducibile
dell'attuale Regime" e condannato a 5 anni di confino. Per fuggire a una
nuova cattura si imbarca per la Francia assieme a Turati. La fuga avviene con
un motoscafo, che parte da Savona l'11 dicembre 1926 e arriva in Corsica.
In Francia, Pertini svolge vari lavori per mantenersi, dal
pulitore di taxi al manovale, dal muratore alla comparsa cinematografica.
La vita dell'esiliato, però, non fa per lui e il 26 marzo rientra
clandestinamente in Italia con dei documenti falsi. Lavora per riorganizzare la
rete del Partito socialista e progetta un attentato a Mussolini.
Quando si trova a Pisa, però, viene riconosciuto da un
fascista di Savona, che lo fa arrestare. Il 30 novembre 1929 è
condannato dal Tribunale Speciale a 10 anni e 9 mesi di reclusione e
a 3 anni di vigilanza speciale.
Durante il processo, il futuro Capo dello Stato rifiuta di
difendersi, non riconoscendo l'autorità del tribunale e alla proclamazione
della sentenza scatta in piedi urlando: "Abbasso il fascismo! Viva il
socialismo!".
Viene trasferito nel carcere dell'Isola di Santo Stefano.
A causa delle sue precarie condizioni di salute, dopo un anno è spostato nel
carcere di Turi dove è l'unico socialista e stringe amicizia con Antonio
Gramsci.
Passano altri dodici mesi e, visto che la sua salute non
migliora, Pertini viene spedito nel sanatorio giudiziario di Pianosa. I
suoi amici, preoccupati, convincono la madre ad intervenire. La donna chiede a
Mussolini di graziare il figlio e la reazione di Pertini è furibonda.
Anni dopo, in un'intervista, confessò di essersi pentito di
aver reagito così duramente: "Oh, sì! Se penso che le scrissi: 'Io ti
considero morta per ciò che hai fatto...'. Se penso che la tenni due mesi senza
posta. Ero esasperato ma commisi ugualmente una crudeltà. Me ne resi ben conto
il giorno in cui la censura lasciò passare una lettera dei miei amici di
Savona. Era una lettera in cui mi dicevano: Sandro, tu la stai ammazzando
questa povera vecchia. Lei non è colpevole, Sandro: fummo noi a cercarla e
chiederle di domandare la grazia. Lei rispondeva no, non devo farla la domanda
di grazia perché il mio Sandro non vuole, gliel’ho promesso, gliel’ho giurato,
voglio esser degna di lui. Ma noi insistemmo'.
Appena seppi la verità, le
scrissi. L’avrei rivista nel 1943, la mia mamma. Per pochi giorni. E
poi non l’avrei rivista più. Morì nel 1945, lo seppi durante la
Liberazione".
Nel 1935, finita di scontare la pena in carcere, è inviato
al confino, prima a Ponza e poi a Ventotene. Tre anni dopo gli viene dedicata
la tessera del Psi: il suo volto compare accanto a quello di altri due
socialisti imprigionati, Rodolfo Morandi e Antonio Pesenti. Viene liberato dal
confino il 13 agosto 1943, pochi giorni dopo la caduta di Mussolini, dal governo
Badoglio.
Torna ad essere un uomo libero dopo 14 anni. Si precipita a
Roma per ricostruire il Partito socialista e viene eletto vicesegretario del
Psiup. Ma la libertà dura poco. Il 15 ottobre, al termine di una riunione
clandestina, Pertini viene catturato assieme a Saragat e ad
altri socialisti. Sono rinchiusi a Regina Coeli e condannati a morte.
La sentenza, però, non viene eseguita grazie a un'evasione
rocambolesca organizzata dalle Brigate Matteotti. Scampato il pericolo, dopo
qualche mese, Pertini si sposta nel Nord Italia, ancora sotto il dominio
tedesco, e diventa segretario del Psiup per l'Italia occupata.
Il 25 aprile 1945, qualche ora prima della liberazione di
Milano, Mussolini chiede e ottiene dal cardinale Schuster un
incontro con il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. Pertini,
inizialmente non reperibile, arriva in ritardo e incrocia il Duce che va via.
Arrivato nella sala, dove era da poco terminato l'incontro,
mette in chiaro che nessuna trattativa può essere avviata con Mussolini.
L'unica possibilità per il Duce è una resa incondizionata. Mussolini, avvertito
della posizione di Psiup e Pci, non accetta e cerca di fuggire in Svizzera.
Sarà fermato prima di riuscire a varcare il confine e poi fucilato.
Pertini, però, condanna lo scempio del cadavere del Duce,
della Petacci e di altri gerarchi, fatto a Piazzale Loreto: "I corpi non
erano appesi. Stavano per terra e la folla ci sputava sopra, urlando. Mi feci
riconoscere e mi arrabbiai: 'Tenete indietro la folla!'.
Poi andai al CLN e dissi che era una cosa indegna: giustizia
era stata fatta, dunque non si doveva fare scempio dei cadaveri. Mi dettero
tutti ragione. E si precipitarono a piazzale Loreto, con me, per porre fine
allo scempio. Ma i corpi, nel frattempo, erano già stati appesi al distributore
della benzina".
Il futuro presidente ordina di tirarli giù e di portarli
all'obitorio. "Io - rivendicò tempo dopo - il nemico lo combatto quando è
vivo e non quando è morto. Lo combatto quando è in piedi e non quando giace per
terra".
Il 2 agosto 1945, dopo la nomina di Nenni a
vicepresidente nel governo Parri, Pertini diventa segretario del Partito
socialista di unità proletaria. Un anno dopo viene eletto nell'Assemblea
Costituente e sposa Carla Voltolina, staffetta partigiana
conosciuta a Torino. Nel 1949, Nenni lo nomina direttore dell'Avanti!, il
quotidiano del Partito socialista.
Pertini si adopera sempre a favore dell'unità del partito e
cerca, senza successo, di evitare le scissioni che si susseguono dal 1947 al
1964. Nel 1953, alla morte di Stalin, celebra il dittatore sovietico:
"Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà
tramonto".
E ancora nel 1956, Pertini difende la scelta dell'Unione
sovietica di invadere l'Ungheria. Ma nel 1953 non era ancora uscito il rapporto
di Kruscev sui crimini commessi da Stalin, e nel 1956, nella sinistra italiana,
l'Unione sovietica godeva ancora del 'credito' di aver sconfitto il
nazismo.
In piena contestazione studentesca, nel 1968, arriva
l'elezione a presidente della Camera. L'apice della sua carriera sembra
raggiunto, ma il colpo di scena deve ancora arrivare. Nel 1978, nel pieno degli
'Anni di Piombo', il presidente della Repubblica, Giovanni Leone, è tirato
in ballo nello scandalo Lockeed e si dimette.
Il Parlamento deve votare il suo successore, ma è
paralizzato dai veti incrociati dei partiti. La pressione dell'opinione
pubblica cresce di votazione in votazione e porta la politica a decidere: la
candidatura di Pertini, dopo qualche giorno di trattativa, è appoggiata da
praticamente tutto l'arco costituzionale e l'ex comandante partigiano
viene eletto l'8 luglio 1978 con 832 voti su 995, la più larga
maggioranza della storia repubblicana.
Il suo modo di intervenire direttamente nella vita politica
del Paese rappresenta una novità per il ruolo di presidente della Repubblica. È
il primo Capo di Stato a dare l'incarico di formare il governo
a un politico non democristiano e in occasione del terremoto in Irpinia,
arriva a criticare apertamente l'operato del governo.
La moglie non lo segue al Quirinale e Pertini la sera torna
nella sua mansarda di 30 metri quadri sopra la Fontana di Trevi. Termina il suo
mandato presidenziale nel 1985 e si spegne il 24 febbraio del 1990, all'età di
93 anni, per le complicazioni dovute a una caduta di qualche giorno prima.
La sua eredità politica e ideale, è tutta in una frase che
pronunciò davanti ai lavoratori dell'Italsider, quando era presidente
della Repubblica: "Se non vuoi mai smarrire la strada giusta resta sempre
a fianco della classe lavoratrice, nei giorni di sole e nei giorni di
tempesta".
Alla sua morte, Indro Montanelli lo ricordò
così: “Non è necessario essere socialisti per amare Pertini. Qualunque cosa
egli dica o faccia, odora di pulizia, di lealtà e di sincerità. Ci mancherà
tutto di lui”
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